di Alessandro Alessandrini – Andrea Novelli
Le Marche che ci piaccia o meno sono ancora una regione ostinatamente agricola, tanto è vero che l’agricoltura caratterizza ancora profondamente il territorio, la cultura e la mentalità della popolazione: la SAU (Superfice Agricola Utilizzata) interessa ancora oltre 470.000 ha. Secondo i dati pubblicati dall’ISTAT, della superficie agricola utilizzabile i seminativi rivestono ancora il ruolo predominante con oltre 214.000 ha, mentre i vigneti e gli oliveti non raggiungono complessivamente i 30.000 ha.
Il frumento duro rappresenta la coltura prevalente interessando, nella media delle annate agrarie, circa 130.000 ha ed è la fonte di reddito basilare per le aziende agricole, con un valore medio di PLV pari a circa 100 milioni di euro all’anno. Le Marche sono la terza regione per la produzione del grano duro (dopo Puglia e Sicilia), e vantano caratteristiche qualitative elevate anche grazie all’ottima tecnica colturale dagli agricoltori locali praticata all’interno di efficaci rotazioni diventate sempre più difficili, a causa della sciagurata dismissione della bieticoltura, scomparsa dopo la folle scelta della chiusura degli zuccherifici, che costituiva uno dei tre pilastri fondamentali per il reddito delle aziende agricole marchigiane. Ritornando al grano duro, considerata la prevalenza di questa coltura e del suo ruolo strategico fondamentale che riveste per la vita delle aziende agricole, sarebbe sembrato logico investirci tempo e risorse ed invece niente o quasi è stato fatto. Come spesso, capita, si è andato avanti con l’inerzia tipica di chi non ha interesse politico o forse acume per analizzare le situazioni in prospettiva. In fondo, fino a pochi anni fa la posizione della nostra regione, posta sull’asse adriatico, rendeva comunque interessante l’offerta, seppure estremamente frazionata, degli stoccatori Marchigiani: i mulini pugliesi (polo fondamentale a livello nazionale) acquistavano volentieri il nostro grano duro per tagliare quello locale di qualità inferiore e compensavano la distanza con la possibilità di abbinare i trasporti dei cruscami, verso i mangimifici del nord, con il carico del cereale verso sud; mentre i mulini del nord, dove il grano coltivato era principalmente tenero, trovavano nella nostra regione il grano duro più vicino e facile da raggiungere via autostrada. Inoltre, in regione insistevano importanti impianti per la macinazione ed il porto di Ancona permetteva di trasferire in modo molto efficace gli eventuali picchi di produzione (vedi raccolto 2004) sia sugli altri porti nazionali che per l’esportazione.
Purtroppo, recentemente, gli operatori della Puglia hanno organizzato razionalmente sia la produzione (migliorando quantità e qualità) che la logistica, agevolando lo sbarco di cereali nazionali ed esteri sui propri porti; a questo aggiungiamo che alcune importanti industrie molitorie e pastaie del Nord sono entrate in crisi riducendo l’utilizzo del grano duro, come alcune realtà molitorie locali, una in particolare, hanno di fatto cessato la macinazione di una quota molto consistente di cereale locale. Nonostante questo la coltivazione e la commercializzazione del grano duro resta ancora oggi molto diffusa (numerosissime le aziende agricole e molti stoccatori e commerciati) ed ha, inconsapevolmente, mascherato il problema, rendendolo meno percepibile nell’immediato, ma non meno grave dal punto di vista finanziario. Problema che è diventato quindi strutturale: le Marche, prime in posizione strategica, vengono tagliate fuori dai nuovi equilibri della domanda interna.
In tutto questo risultava fondamentale la struttura per la concentrazione e l’imbarco delle granaglie alla rinfusa del Porto di Ancona, che ha permesso ad alcuni importanti operatori nazionali ed internazionali di approvvigionarsi di grano duro marchigiano sia per l’esportazione sia per altri utilizzatori. Dei raccolti 2015 e 2016 la quota di grano duro destinato al porto di Ancona è stata molto rilevante, oltre il 30% della produzione. I silos in concessione sull’area demaniale del porto risalgono agli anni ‘60, quando la lungimiranza di imprenditori come Ferruzzi e Angelini e la capacità degli allora amministratori locali, avevano percepito necessità di organizzare un polo logistico che permettesse alle produzioni marchigiane di concentrarsi, trasformarsi e raggiungere tutti i mercati e alle strutture di trasformazione del territorio, dai mulini ai mangimifici, di avere la possibilità di rifornirsi agevolmente e convenientemente di materie prime non prodotte localmente.
Angelini, con la ICIC realizzò un impianto industriale per la produzione di olio di semi e Ferruzzi l’impianto di silos per l’ammasso, l’imbarco e lo sbarco delle granaglie. Venne creato un polo che era all’avanguardia e che solo successivamente le grandi cooperative crearono sui porti Francesi e che oggi costituisce il loro punto di forza principale. L’impianto di Angelini favorì la diffusione della coltura del girasole in regione, che resta ancora oggi la prima produttrice italiana per questa oleaginosa e che assieme alla realizzazione dello zuccherificio di Jesi, dette un impulso formidabile alla creazione di vere filiere agroindustriali ed allo sviluppo agricolo del territorio. Ferruzzi rese possibile la movimentazione e lo stoccaggio delle derrate agricole su larga scala, con una logistica moderna, ponendole in modo competitivo su tutti i mercati. Non solo, lo scalo del porto rese interessante il territorio per l’industria di trasformazione, tanto che negli anni seguenti venne realizzato un grande impianto di macinazione a Santa Maria Nuova e venne ristrutturato e riavviato con successo, dal primo produttore italiano di pasta, il Mulino Angelini di Castelplanio: non era reperibile solo dell’ottimo grano locale, ma c’era la possibilità logistica di poter disporre anche di merce di altra provenienza. Altri scenari, altre intelligenze.
Le vicende degli impianti del porto sono andate avanti fino ad oggi con il rinnovo delle concessioni, ma la comprensione dell’importanza di questo polo logistico è scemata progressivamente: da un lato la città di Ancona non ha mai sentito un forte legame con il territorio rurale di cui è capoluogo, rimanendone estranea, dall’altro l’impostazione della politica agricola regionale non ha mai ben compreso le reali esigenze ed evoluzioni commerciali delle principali produzioni agricole, le quali rimando “slegate” dagli indirizzi che le nuove politiche comunitarie si è indirizzata verso un’agricoltura di nicchia (o peggio “da presepio”) contribuendo alla dispersione ed al declino di un territorio che prima era all’avanguardia e poteva essere preso a modello. I risultati sono più che evidenti: la chiusura degli zuccherifici, la chiusura dell’oleificio! Non solo tale miope volontà si evidenzia quando la Bunge (importante imprenditore del settore della provincia di Ravenna, che acquista la maggior parte del girasole marchigiano) prima di decidere di interrompere l’attività su Ancona, propose un piano di investimenti per la ristrutturazione dell’impianto sul porto, con l’intenzione di rilevare la concessione dall’autorità preposta. Nonostante fosse evidente quale opportunità si stava prospettando per l’intero settore, la vicenda non andò a buon fine e “sospettare” ora, che venne “spinto” ad andarsene non è poi tanto esagerato… La concessone demaniale per i silos del porto è stata rinnovata nel 2016 per tre anni: i 12 silos della SAI a Giudice e gli altri 34 alla Silos Sicilia (Casillo); scadrebbe quindi nel 2019 con disdetta da comunicare con preavviso di 18 mesi. La disdetta è stata inviata dall’Autorità Portuale nei termini, ma è stato precisato che non saranno accettate richieste di rinnovo. Da prassi, essendo area demaniale, prima di essere consegnata dovrà essere ripristinata come in origine, quindi verranno impiegate notevoli risorse finanziare per demolire e smaltire invece che per potenziare e implementare. Sia chiaro, il concessionario dell’area della rinfusa del porto di Ancona è il più importante operatore nazionale del settore cereali; il territorio circostante è prevalentemente cerealicolo; si sta facendo di tutto per mandarlo via; l’unica preoccupazione sembra essere quella di salvare gli “splendidi” murales con cui sono stati abbelliti i silos. (sic…ed arisic!) I silos dell’imbarco, pur datati, sarebbero ancora efficienti tant’è che nel mese di maggio la Sicilia cereali ha acquisito il ramo di azienda della SAI s.r.l., subentrando anche nella concessione dei 12 silos lato mare, mossa questa che aveva suscitato parecchie speranze da parte degli operatori agricoli locali, speranze subito infrante quando nel medesimo giorno l’Autorità Portuale inviò le disdette delle concessioni, senza possibilità di rinnovo. Motivazioni: scarso volume delle merci movimentate negli ultimi anni, specie se confrontate con quelle del porto di Ravenna. Il porto di Ravenna, però, da anni, attraverso una gestione oculata, è diventato uno scalo ottimale per le materie prime soprattutto in ingresso, con una logistica moderna, con facilità di sbarco e magazzini adeguati, con operatori invogliati ad incentivare la propria attività. La gestione del Porto di Ancona, invece, è andata in direzione opposta: logistica bloccata, pescaggi inadeguati, interessi di parte, ideologia politica e nessuna volontà di tenere conto delle esigenze del territorio; risultato: degrado della logistica con perdita di competitività; come stupirsi se molti tra gli operatori più importanti se ne siano andati? Non possiamo, però, ignorare che lo smantellamento della zona alla rifusa e la demolizione dei silos non siano inquadrati in un progetto ben definito per il rilancio di una qualche attività produttiva del porto. Si ipotizza uno spostamento dell’attracco dei traghetti dalla Grecia al molo Sud e basta, spacciando questa scelta come soluzione per incrementare il turismo della città, quanto ormai è più che evidente che l’attività dei traghetti non porta assolutamente nulla al territorio, se non il traffico congestionato verso l’autostrada. Tanti gas di scarico e nessuno che si fermi per visitare la città. Chi passa per Ancona ha fretta di imbarcarsi e fretta di sbarcare e tornarsene a casa o a destinazione soprattutto se si trova sopra un TIR. Ergo, dopo anni di chiacchiere e lotte politiche “facendo come i ladri di Pisa” si è lasciato andare alla malora un’intera area produttiva, disincentivando chi sarebbe stato disponibile ad investire e rendendo il porto quasi impraticabile (com’è possibile che la quasi totalità delle merci del porto transiti su gomma per la rotonda dell’ospedale di Torrette?), dando il ben servito al concessionario dei silos, per favorire l’attività commerciale ed economica delle compagnie greche ed albanesi di navigazione: bel colpo! Certo, come non considerare i punto di vista delle istituzioni cittadine che, nel mettere in conto il miglioramento della “skyline del porto” ed il “recupero del rapporto porto/città” per gli anconetani, favoriscono l’happy hour al porto vecchio, non facendo più vedere quegli “orribili” ed antiestetici silos del grano! Sarcasmo (a ragion veduta) a parte e cercando di essere propositivi, si deve sostenere senz’altro che il porto di Ancona ha un ruolo fondamentale per rendere competitive sui mercati le produzioni cerealicole del territorio e per la costituzione di lotti omogenei di prodotto, in strutture efficienti e di facile accesso per l’industria di trasformazione, che non si può pensare solo attraverso il traffico su gomma. Serve insomma un intervento coordinato della politica agricola della Regione e dell’Autorità del Porto per supportare e rilanciare una attività di fondamentale importanza, ormai in piena involuzione economica, smettendo di inseguire riconversioni fantasiose e prive di prospettive e cercando di arrivare fino in fondo nella progettazione di un piano produttivo vero, non a fasi staccate con la logica del “poi vedremo”. L’esempio migliore di quanto affermato si evidenzia, inequivocabilmente, nell’Interporto Marche, struttura del tutto inutile, (alla quale Confagricoltura è stata sempre contraria fin dalle iniziali fasi progettuali) che ha assorbito una quantità impressionante di denaro pubblico (oltre ad avere consumato il miglior suolo agricolo della Vallesina) e che ad oggi non ha alcuna possibilità di rilancio. Sarebbe bastato arrivare alla fine del percorso progettuale per capire che un interporto a 30 km dal porto sarebbe stata una vera è propria follia! Comunque la prospettiva che si sta delineando riguardo la problematica dei silos del porto di Ancona non sembra positiva. Saremo pessimisti ma alla conferenza stampa convocata da Agrinsieme presso il Parlamentino della Camera di Commercio del 5 ottobre u.s., dove tutti gli attori vennero invitati, l’assenza più “stridente” fu quella di qualsiasi rappresentante del Comune di Ancona, che siano stati politici o funzionari: nulla! Mentre al contrario è stata apprezzata la presenza del rappresentante dell’Autorità Portuale pur con le diversità di vedute, per non parlare delle apprezzate presenze dei rappresentanti dei sindacati dei lavoratori portuali e dei trasportatori e del Commissario della Camera di Commercio Marche. Il mondo agricolo certamente non demorderà è terrà alta l’attenzione, proponendo, come ha proposto, delle ipotesi alternative che contemperi le esigenze di tutti gli attori, ipotesi alle quali non sono giunte nessun riscontro oggettivo salvo generici dimostrazione di solidarietà e sostegno. Sembrerebbe che la “maledizione” di Ancona, che persiste dalla ricostruzione del terremoto del ’72 e dalla frana dell’82 non sia ancora esaurita, quando fu “tenuta in scacco” a lungo per l’esclusivo interesse di un noto ed onnipotente imprenditore locale. Ci auguriamo, al contrario, che chi ha la facoltà di decidere pensi seriamente a progettare ed investire risorse a beneficio dell’intero territorio e non finalizzare gli indirizzi di gestione politica per l’interesse di pochi (pochissimi, o di un singolo… ) operatori locali e ricordando che la città di “Ancona è di origine ellenica, e la fondarono i Siracusani che fuggivano la tirannia di Dionigi. Sta sopra un promontorio che volgendosi a settentrione ne forma il porto ed è molto abbondevole di vino e frumento” (Strabone – storico e geografo Greco nato nel 60 A.C.).